INNO di MAMELI e note al margine

Fratelli d’Italia, 
l’Italia s’è desta;
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa


Quando Goffredo Mameli scrisse l’inno, divenuto in seguito il nostro inno nazionale, l’Italia era ancora divisa in sette stati per la maggior parte controllati dall’Austria.
Nei primi versi si dice: “Fratelli, solleviamoci, l’Italia s’è scossa dal suo lungo torpore, vuole liberarsi dalla dominazione di piccoli re e duchi, riprende le armi come al tempo dell’antica Roma quando Scipione l’Africano vinse i Cartaginesi di Annibale”.


Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.


Gli antichi Greci e Romani personificavano la Vittoria, come la Fortuna, in una donna dalla lunga capigliatura, distesa sopra una ruota che girava velocissima. La Vittoria arrideva di preferenza ai Romani perché temprati alla durezza della vita militare. Ecco perché il poeta dice: La Vittoria porga la sua chioma all’Italia.

Stringiamci a coorte,
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.


Formiamo delle schiere (la coorte era, ai tempi dell’antica Roma, la decima parte della legione - La legione si divideva in coorti, centurie e manipoli - qui, però, il poeta usa il termine in senso lato: vuole indicare una moltitudine) e tutti stretti a un patto, votiamoci alla morte per la causa nazionale.

Noi siamo da secoli
Calpesti e derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi;
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.


Per molti secoli la nostra Patria fu terra di conquista per gli stranieri perché ci lasciammo prendere dall’odio di parte e dalle idee di “campanile”. Le nostre discordie c’indebolirono e ci misero alla mercé di questo o di quel padrone. Eravamo, insomma, così ridotti che il poeta francese Lamartine chiamò l’Italia “terra dei morti” e il Principe di Metternich, primo ministro austriaco, parlando dell’Italia, disse che era null’altro che “un’espressione geografica”.
“non siam popolo” - cioè non siamo consci dei nostri doveri e, per conseguenza, della nostra forza.
Ma ora che l’istruzione e la coscienza nazionale si sono diffuse per ogni angolo della Penisola, raccogliamoci tutti sotto la bandiera nazionale, fondiamoci in un solo volere e nostra comune meta sia l’unità della Patria.


Uniamoci, amiamoci:
L’unione e l’amore
Rivelano ai popoli
Le vie del Signore.
Giuriamo far libero
Il suolo natio.
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?


In questa strofa il poeta insiste nel raccomandare l’amore e la fratellanza tra italiani. Così faremo grande l’Italia perché Dio protegge i popoli uniti e concordi.

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano:
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, la mano;
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla:
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.


Questa strofa rammenta fatti memorabili della nostra intolleranza a qualsiasi giogo straniero. Secondo il poeta gli Austriaci dovevano essere vinti in ogni Terra del nostro Paese (Dovunque è Legnano).
A LEGNANO il 29 Maggio 1176 le schiere della Lega Lombarda debellarono l’esercito dell’imperatore Federico Barbarossa.
FRANCESCO FERRUCCIO, difensore della Repubblica Fiorentina, sopraffatto dal numero preponderante dei soldati di Carlo V, cadde il 2 Agosto 1530, coperto di ferite, a Gavinana. A Fabrizio Maramaldo (capitano di ventura calabrese al servizio dell’imperatore straniero) che si avvicinava per finirlo, disse: ”Vile, tu uccidi un uomo morto!”.
BALILLA - si riferisce a un episodio accaduto a Genova nel 1747: In quel tempo Genova era sotto il dominio austriaco. Il popolo aspettava il momento per ribellarsi e quel momento venne. Un giorno alcuni gendarmi croati trascinavano per la via un grosso mortaio ma, per il grave peso, una ruota affondò nel fango. L’ufficiale, con prepotenza e con minacce, si rivolge, per avere un aiuto, ai cittadini presenti. Riuscita vana ogni minaccia, prende a bastonarli. A tale vista, un giovane, G.B. Perasso, soprannominato Balilla, lancia un sasso contro i militari gridando in dialetto genovese.”Che l’inse?” (“comincio a rompere?”). Quel sasso è la scintilla che fa scoppiare la rivolta; dopo cinque giorni di battaglia gli Austriaci sono scacciati da Genova ed inseguiti fin oltre gli Appennini.
VESPRI - Questo verso si riferisce ad un episodio accaduto a Palermo il 31 Marzo 1282. Allora Palermo era sotto il dominio francese. La popolazione, provocata dal contegno spavaldo e prepotente dei soldati stranieri, si ribellò e ne fece un massacro. Intanto la campana della chiesa di Monreale suonava i Vespri. L’esempio di Palermo fu seguito dalle altre città della Sicilia e portò alla disfatta completa dei Francesi in tutta l’Isola.


Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’aquila d’Austria
Le penne ha perdute.


Col traslato “Le spade vendute” il poeta vuole significare che i soldati, quando combattono per una causa ingiusta e per il guadagno, non resistono all’impeto d’un popolo che affronta i pericoli della guerra per la propria libertà.
Con l’allegoria “Già l’aquila d’Austria / Le penne ha perdute”, si allude all’Impero d’Austria (lo stemma austriaco porta un’aquila bicipite - cioè con due teste) che nel 1847, dopo i moti rivoluzionari di Vienna, s’era indebolito (le penne ha perdute).


Il sangue d’Italia,
Bevé, col Cosacco
Il sangue Polacco;
Ma il cor le bruciò.


Anche la Polonia, come l’Italia, combatté lungamente per la sua indipendenza, ora contro la Russia, a Varsavia, ora contro l’Austria, a Cracovia. Ma purtroppo tutti i patriottici tentativi furono soffocati nel sangue.
Così l’Austria, che aveva bevuto il sangue italiano, bevve con la Russia (Cosacco) il sangue polacco, ma ne ebbe avvelenato il sangue e perse le forze (Ma il cor le bruciò).
N.B. - Molti polacchi combatterono per la libertà d’Italia a Venezia (1848 ), a Roma (1849), in Lombardia (1859), In Sicilia (1860).


NOTE A MARGINE
GOFFREDO MAMELI scrisse l’inno poco più che ventenne. 



GIOSUÈ CARDUCCI così lo ricordava: 
...........Tu cadevi o Mameli,
Con la pupilla cerula fissa agli aperti cieli,
Fra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior 
Ti rideva da l’anima la fede, allor che il bello
E biondo capo languido chinavi
.

GIUSEPPE MAZZINI ne fece un ritratto in questi termini: 
.......... Né qui io parlerò dello zelo instancabile spiegato da lui giovinetto, né del valore ch’ei mostrò combattendo nella giornata del 30 Aprile 1849...............Il coraggio era natura in Goffredo..................
Avresti detto ch’egli dovesse morire con Roma. E morì il sei Luglio.....
”.

L’INNO FU MUSICATO DA MICHELE NOVARO NEL 1847.
La prima stesura autografa dell'inno di Mameli, è custodita nel Museo del Risorgimento e Istituto Mazziniano di Genova.
Dalla città ligure il testo giunse una sera nella casa torinese del patriota Lorenzo Valerio, dove si trovava anche Michele Novaro, il quale ne fu subito conquistato.
Così il compositore ricordò quei momenti:
"Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse, quel povero strumento, (...), mettendo giù frasi melodiche, l'un sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole.
Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po' in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente.
Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su di un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani; nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l'originale dell'inno Fratelli d'Italia
".
Il manoscritto originale iniziava con "Evviva l'Italia", poi cambiato con "Fratelli" per indicare figli di una stessa Patria.


► Il presente testo è stato tratto da una pubblicazione a cura della Presidenza della Repubblica, distribuita in occasione del 2 Giugno 2000