CONTINUA: Uganda ascoltare per capire


Museveni, il presidente in carica dal 1986, e i suoi governi si sono dimostrati incapaci di rispondere alle esigenze del Paese. Il malcontento è generale-nella mia esperienza non ho trovato un solo ugandese che abbia espresso una buona opinione su di lui! - e la reazione da parte del governo è quella di dare un giro di vite alla libertà di espressione dei cittadini (per chi volesse saperne di più segnalo: http://www.monitor.co.ug/OpEd/OpEdColumnists/DanielKalinaki/-/878782/1328324/-/rxl848z/-/index.html )

Ci chiediamo naturalmente cosa possiamo fare e a questo proposito Kasha, pochi giorni fa, ha inoltrato un documento in cui la “Civil Society Coalition on Human Rights and Constitutional Law“, che comprende decine di organizzazioni ugandesi femministe, lgbt o che comunque lavorano nel campo dei diritti umani, suggerisce quali iniziative intraprendere e con quali modalità (vedi allegato).

Io vorrei porre l'attenzione su alcuni punti che mi sembrano molto importanti

Nel documento si esortano diplomazia internazionale e governi occidentali ad esercitare una pressione sul governo ugandese, ma muovendosi con molta discrezione e lontano dai media. La comunità internazionale viene invitata a condurre azioni in grado di sensibilizzare grandi masse senza però alimentare sentimenti negativi nella popolazione ugandese, come ad esempio le petizioni.

Perché si raccomanda tutta questa cautela?

Riprendo un articolo pubblicato ad inizio novembre che mi è capitato di leggere su un quotidiano in Uganda ma che non credo abbia avuto la rilevanza che meritava. Il pezzo è sottoscritto dagli Attivisti della Giustizia Sociale in Africa (http://www.trinityafer.com/en/index.php/news/7639-cameron-has-threatened-to-cut-aid-to-countries-that-persecute-homosexuals), un movimento a cui aderiscono numerosissimi gruppi lgbt e non solo, i quali invitano il premier inglese Cameron a rivedere la sua proposta-minaccia di tagliare i fondi ai Paesi del Commonwealth che considerano illegale l'omosessualità.

I motivi sono tanti e cerco di riassumerli.

In Africa è nato un movimento per la giustizia sociale che lavora per portare le questioni lgbt all’interno della società civile e che si relaziona con le istituzioni. Un lavoro duro e delicato al tempo stesso per il quale una presa di posizione così forte da parte dell'occidente risulta controproducente.

Una posizione coercitiva, quella inglese, che va a rafforzare lo squilibrio di potere tra Paesi donatori e Paesi che usufruiscono delle donazioni e che avalla quanto i politici africani continuano a ripetere come dischi rotti, cioè che sono stati i bianchi ad esportare l'omosessualità in Africa e sono loro a voler imporre l'accettazione della stessa.

 In un Paese in cui il problema della violenza sulle donne è enorme e le donne eterosessuali sono vulnerabili quasi quanto le persone lgbt, in cui la sanità e il cibo non sono garantiti a tutti, la minaccia di Cameron si traduce nel messaggio che i diritti degli omosessuali sono prioritari rispetto a tutti gli altri. Senza trascurare il fatto che la riduzione dei fondi porta ad un peggioramento delle condizioni di quei servizi (scuole, sanità etc) di cui anche le persone lgbt usufruiscono.

Traduco letteralmente:“ Le misure (sanzionatorie) dei Paesi donatori si basano spesso su supposizioni che riguardano la sessualità africana e i bisogni delle persone lgbt africane”.

Sono appena tornata da una esperienza lavorativa in Uganda e so bene quanto gli ugandesi siano accoglienti con i bianchi – sono considerati tra i più accoglienti dell’intero continente-, ma so anche quanto desiderino trovare una loro strada. Una strada che sentano essere la loro. 

 In un contesto così delicato, con questioni che hanno a che fare con la vita e la morte, il supporto dell’occidente è fondamentale ma prestare grande attenzione alle voci provenienti dall’Africa è quantomeno doveroso.

Manuela Fazia